Fu in
occasione di una sirena d’allarme, che uscendo di casa per correre nel
rifugio, sono impressionata, stupita, dal comportamento strano,
inconsueto, di un gruppo di ragazze, al di là della strada. Anziché
pensare di mettersi in salvo, come facevamo noi - perché, fra il resto,
molte volte, quando suonava la sirena di allarme, avevamo già sulla testa
gli apparecchi – queste, durante il tragitto si soffermavano a dare aiuto
a persone nel bisogno: prendevano sotto braccio vecchine incapaci di
correre, oppure soccorrevano una mamma con quattro o cinque bambini...
Rimango così impressionata da questa carità, diciamo, eroica, sprezzante
del pericolo, che mi riprometto subito di prendere contatto con loro.
tanto più che in mezzo ad esse, avevo riconosciuto Chiara, che mi era
stata presentata alcuni giorni prima.
Infatti,
nel reparto ospedaliero dove lavoravo, c'era un giovane studente medico,
il quale mi aveva confidato: “Fare il medico non è il mio solo lavoro, ho
anche un'attività di carattere politico-sociale, ma clandestina”. E a
quell’attività ben presto mi aggregai anch'io. In quell'epoca la nostra
città era invasa dalle S.S...
Un giorno
il mio amico medico mi confida: “Ho una sorella che amo e stimo molto,
vorrei presentartela… Vedi un po' se riesci ad attirarla alla nostra
causa”. Me la fa conoscere: era una ragazza giovane, semplice, però subito
avevo notato in lei una personalità molto dignitosa, ed ero rimasta
impressionata dal suo sguardo tutto interiore. Mi ascolta fino in fondo,
poi mi dice: “Il vostro ideale è molto bello, però non posso dirvi di
aderire subito, perché appartengo all'Azione Cattolica e devo chiedere il
permesso alla mia presidente”. Così l’avevo conosciuto e adesso me la
trovavo di fronte a casa mia.
Dopo
una prima visita, confesso che quasi quotidianamente andavo a trovare
queste mie nuove compagne, diventate subito amiche. Loro abitavano in un
appartamentino molto piccolo, arredato rudimentalmente: una fila di
brandine, un grande tavolo e alcune sedie, alle pareti un solo quadro,
raffigurante il volto straziato di Gesù morente. Avevo subito capito che
quell'immagine era il loro Amore, il loro tutto, il loro scopo, la loro
vita.
Mi accoglievano sempre
festosamente, nella gioia, anche se fuori infuriava la guerra. Ma io ero
soprattutto attirata dal fatto che mi mettevano al corrente di quello che
leggevano nel vangelo. Il vangelo, dunque. Ma io lo conoscevo? Forse, vi
confesso, non lo avevo mai letto. E' ben vero che la domenica in chiesa un
sacerdote ne leggeva un brano che poi commentava: le persone più devote ne
avrebbero riportato dei buoni propositi, che sarebbero poi durati due, tre
giorni, ma tutto finiva lì. Queste ragazze, invece, mi accorgevo, non solo
lo leggevano, non solo lo commentavano, ma immediatamente lo mettevano in
pratica frase per frase, alla lettera, senza annacquamenti, senza
attribuzioni. Questa era la novità, era ciò che mi affascinava.
Un
giorno Chiara mi accoglie più festosamente del solito: “Senti che cosa
abbiamo letto nel vangelo: ‘Vi do un comandamento nuovo, amatevi gli uni
gli altri, come io ho amato voi’ - poi continua - E' quel ‘come’ che ci dà
la misura, Gesù come ci ha amati? Donando la vita per noi”. Vi fu un
silenzio generale, poi a un certo punto una vocina alla mia sinistra, una
di loro: “Ma io sono pronta sai a donare la mia vita per te!”. Poi alla
mia destra un'altra: “Ma io sono pronta sai a morire per te!”. “E tu?” “E
tu?” “E tu?”. Tutte eravamo pronte a donare la vita una per l'altra.
Si
presenta alla “casetta” (non esisteva
ancora il nome “focolare”) un povero a chiedere l'elemosina.
Esse lo accolgono e aprono la loro piccola dispensa. Si ricordavano di
aver letto nel vangelo: "Tutto ciò che avrete fatto al minimo dei miei
fratelli, l’avrete fatto a me". Donano al povero, quindi, tutto quello
che avevano trovato nella dispensa. E dico “tutto”, al rischio di
restare loro stesse senza pranzo o senza cena. Questo, però, non
avveniva mai: prima della sera arrivava sempre qualcuno: compagne,
amici, conoscenti, a portare viveri in abbondanza. Eh sì, il vangelo lo
dice: "Date e vi sarà dato". Esse applicavano alla lettera la parola del
vangelo ed Egli, Gesù, attuava alla lettera le sue promesse.
E quando
non avevano proprio niente da donare ai poveri, avevano letto nel vangelo:
"Chiedete ed otterrete". E arrivavano subito dei barattoli con latte in
polvere, marmellate, legumi, ortaggi… Legumi e ortaggi arrivavano pure a
me ed io li portavo subito alla ‘casetta’. Era necessario, perché in quel
periodo, in seguito a un bombardamento che aveva colpito un’ala
dell’Ospedale, non essendo più sicuro, avevano trasportato attrezzature e
ammalati all’Ospedale di Pergine e io ero stata inviata in servizio al
rifugio di San Martino.
San
Martino era una zona molto a rischio
perché in linea d’aria vicinissima
alla rete ferroviaria, che era continuamente bombardata. Naturalmente
anche qualche casa veniva colpita, per cui molte famiglie rimanevano senza
tetto e, chi non aveva parenti o amici nei paesini vicini a cui chiedere
asilo e ospitalità, era stato costretto a portare una brandina nel rifugio
e viverci dentro giorno e notte. Io allora, a mezzogiorno, uscivo dal
rifugio e andavo alla “casetta” dove, con i legumi e le verdure avevano
preparato un abbondante minestrone in un grande tegame a due braccia. Per
cui aiutata sempre da qualcuno lo portavo nel rifugio, e così potevo
offrire a tutti quegli affamati una porzione di minestra calda.
Insomma, queste mie compagne donavano proprio tutto. E come dovevamo
comportarci noi, desiderose di imitarle nel loro modo di vivere,
affascinate pure noi dalla Parola del Vangelo?
Per prima cosa, sarebbe
stato bene liberarci di tutto quello che ritenevamo superfluo. Che me ne
facevo io di una pelliccia, oppure della racchetta da tennis, di una
collezione di francobolli, un braccialetto d’oro…? Era bene vendere tutto
questo per mettere il ricavato in comune. Guardavamo con ammirazione e
desiderio a quella prima comunità cristiana in cui tutti i beni venivano
messi in comune per cui nessuno si trovava nell’indigenza e dove c’era un
cuor solo ed un’anima sola.
Un
giorno un mio zio mi porta un paio di scarpe troppo strette per lui.
“Potranno servire a un tuo povero”. Corro nella “casetta”, ma quella
mattina non trovo nessuna delle mie compagne. Metto sotto il braccio il
pacchetto e mi dirigo verso l’Ospedale dove lavoro. Durante il tragitto
incontro proprio Chiara che usciva dalla chiesetta di Santa Chiara.
“Proprio te, Chiara – le dico – ho un paio di scarpe per uno dei tuoi
poveri”. “Ci volevano proprio – mi risponde –. Mi sai dire il numero?”.
“Certo, portano il numero 42”. “Proprio quelle di cui avevo bisogno!”,
esclama con gioia. Io ero ignara di tutto: non sapevo che, la sera prima,
un povero aveva chiesto a Chiara un paio di scarpe di quel preciso numero.
Chiara, mossa dall’amore, gliele promette. E in quella chiesina si era
rivolta con grande fede al Crocefisso: “Gesù, ho bisogno di un paio di
scarpe da uomo, numero 42, per Te nel povero”. Uscendo aveva trovato me
che le offrivo proprio quanto aveva appena chiesto! Il Signore mi aveva
usata come strumento per esaudire la preghiera di Chiara.
Per
la mia attività clandestina e patriottica una volta in settimana io mi
dovevo recare a Bolzano, dove c’era il Command Entour. Nelle carceri
avevamo anche dei nostri compagni. Io normalmente portavo in un posto
indicato e da noi ben conosciuto dei viveri per questi carcerati e anche
degli indumenti di lana, soprattutto per le persone nel campo di
concentramento, perché sapevo che soffrivano il freddo. Inoltre vi andavo
per assumere informazioni. Dovevo essere a conoscenza per poi comunicarlo
ai miei compagni, se qualcuno dei nostri amici prigionieri, sotto le
torture, avessero pronunciato dei nomi. In questo caso, tornando a Trento,
avrei dovuto riferirlo alle persone interessate, in modo che potessero
sottrarsi alle ricerche delle SS.
Le
prime volte mi recavo a Bolzano in bicicletta,
poi avevo trovato un mezzo più semplice e meno faticoso. Mi fermavo ai
margini della strada provinciale da dove passavano moltissimi camion
tedeschi. Alzavo la mano, uno di questi si fermava, mi issavano a bordo
con la mia mercanzia e mi facevano poi scendere nelle vicinanze di
Piazza Walter, a Bolzano. Quando arrivavo, la piazza era immersa nel
silenzio più assoluto: era un’ora in cui generalmente sorvolavano gli
aerei e le persone preferivano trovarsi nelle case perché più vicini ai
rifugi.
Dunque
io dovevo attraversare questa piazza. Il silenzio era il più assoluto:
sentivo soltanto il ticchettio dei miei tacchi sul selciato. E mentre
l’attraversavo ripensavo a quel brano bellissimo, evangelico, che avevamo
letto insieme a Chiara, sul giudizio finale: “Avevo fame, e mi hai dato da
mangiare, avevo sete e mi hai dissetato, ero in carcere e sei venuto a
visitarmi…”. Pensavo ancora: io avevo cercato di attirare Chiara alla
nostra causa politico-sociale, essa invece aveva conquistato me.
E come vedete sono ancora
qui!
Trento, aprile 2008
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